Siamo nel quartiere più magrebino della città, convergenti tutti dalle province del bel paese in questo coagulo sopra l’epidermide atrofizzata di Milano, una crosta di reazione immunitaria agli attacchi esterni che ha prodotto il bar all’angolo dove ci beviamo della birra fresca; il locale è gestito da cinesi di prima generazione che non hanno cambiato nulla nell’arredo trascurato e proletario ereditato dai precedenti proprietari- immagino una coppia mista, lei milanese lui dalla Puglia, che hanno aperto il bar agli inizi degli anni ottanta con la liquidazione della fabbrica - la televisione trasmette Inter Bologna, al tavolo di fianco al nostro la famiglia dei gestori consuma un pasto di zuppa di pinne di pescecane, per il bagno bisogna chiedere la chiave.
Mauro ci raggiunge, propone lo straniamento come metodo di lavoro che i nostri diversi linguaggi possono condividere.
La trovo un’ottima idea.
Al fondo del viale un gruppo di giovani nordafricani mette in scena un rito di esclusione, gesti violenti verso uno di loro che se ne va sconfitto e da solo a prendere il tram verso il centro città.
SW
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