domenica 20 gennaio 2013

MOLTEPLICITA', Italo Calvino Lezioni americane


Cominciamo con una citazione:
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Con quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto «cerchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.
Il passo che avete ascoltato figura all’inizio del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Ho voluto cominciare con questa citazione perchè mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.
Avrei potuto scegliere altri autori per esemplificare questa vocazione del romanzo del nostro secolo. Ho scelto Gadda non solo perché si tratta d’uno scrittore della mia lingua, relativamente poco conosciuto tra voi (anche per la sua particolare complessità stilistica, difficile anche in italiano), ma soprattutto perche la sua filosofia si presta molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un «sistema di sistemi», in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato.
Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento.
A questa visione Gadda era condotto dalla sua formazione intellettuale, dal suo temperamento di scrittore, e dalla sua nevrosi. Come formazione intellettuale Gadda era un ingegnere, nutrito di cultura scientifica, di competenze tecniche e di una vera passione filosofica. Quest’ultima egli la tenne – si può dire – segreta: è solo nelle sue carte postume che fu scoperto l’abbozzo d’un sistema filosofico che si rifà a Spinoza e a Leibniz. Come scrittore, Gadda – considerato come una sorta d’equivalente italiano di Joyce – ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia, in quanto sovrapposizione dei vari livelli linguistici alti e bassi e dei più vari lessici. Come nevrotico, Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro. Quello che doveva essere un romanzo poliziesco resta senza soluzione; si può dire che tutti i suoi romanzi siano rimasti allo stato d’opere incompiute o di frammenti, come rovine d’ambiziosi progetti, che conservano i segni dello sfarzo e della cura meticolosa con cui furono concepite.
Per valutare come l’enciclopedismo di Gadda può comporsi in una costruzione compiuta, bisogna rivolgersi ai testi più brevi, come per esempio una ricetta per il «risotto alla milanese», che è un capolavoro di prosa italiana e di sapienza pratica, per il modo in cui egli descrive i chicchi di riso in parte rivestiti ancora del loro involucro («pericarpo»), le casseruole più adatte, lo zafferano, le varie fasi della cottura. Un altro testo consimile è dedicato alla tecnologia edilizia che dopo l’adozione del cemento armato e dei mattoni vuoti non preserva più le case dal calore né dal rumore; ne segue una grottesca descrizione della sua vita in un edificio moderno e della sua ossessione per tutti i rumori dei vicini che gli arrivano agli orecchi.
Nei testi brevi come in ogni episodio dei romanzi di Gadda, ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo.
L’esempio migliore di questa rete che si propaga a partire da ogni oggetto è l’episodio del ritrovamento dei gioielli rubati al capitolo 9 di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Relazioni di ogni pietra preziosa con la storia geologica, con la sua composizione chimica, con i riferimenti storici e artistici e anche con tutte le destinazioni possibili, e con le associazioni d’immagini che esse suscitano. Il saggio critico fondamentale sulla epistemologia implicita nella scrittura di Gadda (Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, Einaudi, Torino 1969) si apre con un’analisi di quelle cinque pagine sui gioielli. Partendo di lì Roscioni spiega come per Gadda questa conoscenza delle cose in quanto «infinite relazioni, passate e future, reali o possibili, che in esse convergono» esige che tutto sia esattamente nominato, descritto, ubicato nello spazio e nel tempo. Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture e gli effetti il più delle volte comici che il loro accostamento comporta.
Una comicità grottesca con punte di disperazione smaniosa caratterizza la visione di Gadda. Prima ancora che la scienza avesse ufficialmente riconosciuto il principio che l’osservazione interviene a modificare in qualche modo il fenomeno osservato, Gadda sapeva che «conoscere e inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale». Da ciò il suo tipico modo di rappresentare sempre deformante, e la tensione che sempre egli stabilisce tra sé e le cose rappresentate, di modo che quanto più il mondo si deforma sotto i suoi occhi, tanto più il self dell’autore viene coinvolto da questo processo, deformato, sconvolto esso stesso.
La passione conoscitiva riporta dunque Gadda dall’oggettività del mondo alla sua propria soggettività esasperata e questo per un uomo che non ama se stesso, anzi si detesta, è una spaventosa tortura, com’è abbondantemente rappresentato nel suo romanzo La cognizione del dolore. In questo libro Gadda scoppia in un’invettiva furiosa contro il pronome io, anzi contro tutti i pronomi, parassiti del pensiero: «… l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona».
Se la scrittura di Gadda è definita da questa tensione tra esattezza razionale e deformazione frenetica come componenti fondamentali d’ogni processo conoscitivo, negli stessi anni un altro scrittore di formazione tecnico-scientifica e filosofica, anche lui ingegnere, Robert Musil, esprimeva la tensione tra esattezza matematica e approssimazione degli eventi umani, mediante una scrittura completamente diversa: scorrevole e ironica e controllata. Una matematica delle soluzioni singole: questo era il sogno di Musil […]

lunedì 3 dicembre 2012

facciamo l'appello

ci aspettano a Cremona in maggio.
intanto come sapete i lavoratori dell'arte si stanno mobilitando, occupano e progettano. Domenica a Macao, Milano,  è intervenuto Marco Scotini di cui apprezzo sempre l'analisi tagliente. Vi mando il link ai suoi due corposi progetti e se vi va potete leggere le risposte a tre domande che gli posi un pò di tempo fa nello losquaderno n.14 a pagina 54.
questo comunque è un appello, vorrei vedervi prima della fine dell'anno.
gap è come sempre un' avventura aperta, per andare, venire e tornare liberamente.
vostra G.

disobedience

no order

venerdì 9 novembre 2012

ibridazione

Ecco, mi dicevo, perché non riprendere a riflettere, e farlo a partire da noi?
Vi propongo, come spunto, il testo di una conferenza di un filosofo, Giovanni Bottiroli, che propone un'idea interessante, secondo me, di ibridazione. Lui dice, se ho capito bene, o almeno, così ho capito io, che l'ibridazione è un intreccio di stili di pensiero, non solo una contaminazione di livelli o di lessici, ma proprio di modi di costruire il significato. ci riguarda? E come?
Questa mia, vuole essere una ripresa del dialogo, per dire un po' di noi e poi, magari, ributtarci nel mondo.
Restiamo in contatto
Mauro

martedì 31 luglio 2012

BAR ITALIA; OPEN luglio 2012

"Buonasera vuoi una rosa" al Bar Italia, la foto è di P. Cattani Faggion

domenica 13 maggio 2012

BAR ITALIA; OPEN luglio 2012

“BAR ITALIA”, produzione del gruppo GAP, è una creazione dalla doppia configurazione: è un'opera d’arte, ed è contemporaneamente una tappa di un progetto più articolato, come negli intenti della nostra pratica artistica.
L'installazione ideata prevede un intervento sonoro, trasmesso per una notte nel
contesto urbano in doppia postazione, sotto l' insegna a neon di due provvisori “Bar Italia”, che trovano temporanea ospitalità sull' ingresso di una banca e di un ufficio pubblico. Si tratta di un montaggio audio realizzato registrando una notte di lavoro di un venditore di rose bengalese nelle strade di Trento dal titolo “Buonasera, vuoi una rosa”.
L’operazione indaga un tema sostanziale del nostro collettivo, il linguaggio al lavoro, in questo caso in senso anche letterale; una ricerca la cui materia è stata inizialmente il mazzo di rose e il venditore, ma che in seguito ha trovato il suo oggetto nel micro mondo di interazioni che avvengono nel bar.
Questa torsione dello sguardo ha prodotto un effetto di straniamento, individuato come metodo che attraversa le diversità dei linguaggi e dei saperi messi in campo in GAP.
Ciò che qui ci interessa è riportare alla superficie e rendere visibile, quello che varie sedimentazioni hanno sospinto verso il basso e dunque reso invisibile, problematizzando l'ovvio. Ci riferiamo alla dimensione implicita del legame sociale che trova nella pragmatica il senso dell’enunciazione. Si tratta di mettere in questione il fondamento del legame sociale facendone emergere i presupposti impliciti che in quanto tali restano nascosti dal velo dell’ovvio, nascosti dal fatto stesso di darli per scontati, ovvero di ritenerli “naturali”. Che è poi il meccanismo dell’alienazione così come l’ha interpretato Marx: il mondo si presenta come
reificato, prodotto non più riconosciuto come tale ma vissuto come Altro che si impone al soggetto collettivo.
Spostare lo sguardo dal venditore di rose alle relazioni nei bar, ci ha permesso di vedere come l’unico ad avere qualcosa da dire sia proprio lui, mentre dall’altra parte l’enunciato è un brusio, un’assenza. BAR ITALIA è dunque questo balbettio diffuso, un enunciato che appare come indistinto rumore di fondo. La sua insegna pertanto la troviamo in luoghi inattesi, la banale e perciò rassicurante indicazione di bar viene decontestualizzata per restituire attraverso lo straniamento, ovvero una dispercezione, un’immagine problematica dell'ovvio chiedendone una nuova interpretazione.
La struttura dell'opera prevede una partecipazione attiva dei cittadini in quanto interpreti del normale pubblico di un bar: sedersi sulle sedie dell'installazione, apre ad una ambivalenza tra essere fruitore di un'opera e allo stesso tempo elemento attivo dell'opera. Ambivalenza che costituisce il punto di snodo grazie al quale si può avviare una riflessione individuale e collettiva sulle percezioni e pregiudizi condivisi nel quotidiano delle relazioni sociali.

lunedì 7 novembre 2011

reale plusvalenza

si... si incontra sempre dell'altro, cioè penso che in ogni progetto, in ogni pensiero, in ogni azione ci sia sempre una grossa componente dell' "altro"... che è quello che generalmente viene, appositamente o automaticamente, trascurato per il fine della realizzazione del progetto stesso... ma l'altro esiste, non c'è dubbio, e lo si vede con l'uso straniante dello sguardo.
Vi chiedo... ma secondo voi... quest' "altro" è la reale plusvalenza del nostro progetto di partenza?
Prince vende le rose... con una frase... la sua è un'azione spinta da ovvie motivazioni di sopravvivenza... la camminata, cosa "ovvia", auditivamente parlando, è un ritmo continuo e ossessionante che suscita tensione, addirittura anche un pò d'ansia per l'attesa del "momento"... c'è un grande contrasto tra il rumore della sua camminata con la quiete della strada notturna... l'ingresso nell' "ambiente bar", con la musica in diffusione, è il vissuto del "momento", un gesto quotidiano visto dagli occhi e sentito dalle orecchie di Prince... ma l'effetto straniante ci regala un altro "momento".. il suono della sua voce gentile, e il suono dell'ambiente del bar contrastano creando una tensione inaspettata... il nostro udito, accoppiato a quello di prince ci fa sentire questo "ambience" piuttosto aggressivo, ostile, ossessionante... si sono invertite le parti? voglio dire... il suono della voce di prince e quello dell'"ambiente bar" creano una tensione di uguale intensità rispetto a quella della camminata?... cosa spiazzante è il fatto che questi suoni (la sua voce, la camminata e l'"ambiente bar") sono mossi entrambi da unico fine, quello commerciale.
plusvalenza della plusvalenza?
U-inductio

domenica 6 novembre 2011

rifare da capo

quello che trovo più vitale nel lavoro che stiamo conducendo è proprio questo effetto straniamento di cui Mauro ha scritto, e che io traduco in un “ non saperne niente “, la sorpresa straniante di incontrare sempre altro da ciò che pensavamo di trovare, e poi dover smontare, aprire, scomporre; un rifare da capo, a scongiurare il rischio di alienazione; ricomporre poi lasciando qualcosa fuori posto, per indicare il metodo praticato, un invito insomma all’uso straniante dello sguardo.
SW

Note a caldo sul materiale audio di “ciao buonasera, vuoi una rosa?”

Il ritmo dell’audio è articolato da un’alternanza camminata – interazione sociale. La camminata è segnata dal fruscio della giacca, fruscio ritmico del movimento del corpo che si sposta per strade vuote, deserte. L’interazione avviene nei bar nicchia di proto socializzazione in cui la musica ne definisce il perimetro. Questo ritmo rende possibile una torsione dello sguardo. Se inizialmente il nostro sguardo si era posato sul mazzo di rose e in parallelo su Prince, accoppiandosi allo sguardo dell’avventore del bar, in una sfumatura di posizioni che vanno dal fastidio al compatimento passando per l’indifferenza di fronte alla sua presenza, successivamente il nostro sguardo trova il suo oggetto nel micro mondo di interazioni che avvengono all’interno dei bar.
Questa torsione dello sguardo produce un effetto di straniamento: ciò in cui prima potevamo immedesimarci e confonderci emerge in un effetto sorpresa. Lo straniamento costituisce un mezzo per rendere visibile l’invisibile, per rendere problematico l’ovvio.
Come l’immedesimazione fa apparire consueti i fatti eccezionali, così lo straniamento fa apparire i fatti consueti di ogni giorno. Gli avvenimenti più comuni, se presentati come assolutamente singolari, vengono spogliati della loro tediosità. [Bertold Brecht, scritti teatrali II, pag. 95]
L’effetto di straniamento è un effetto che produce meraviglia.
Ciò che qui ci interessa è riportare alla superficie e dunque rendere visibile, quello che varie sedimentazioni hanno sospinto verso il basso e dunque reso invisibile. Ci riferiamo alla dimensione implicita del legame sociale che trova nella pragmatica (contesto) il senso dell’enunciazione.
Possiamo mettere in questione il fondamento del legame sociale facendone emergere i presupposti impliciti che in quanto tali restano nascosti dal velo dell’ovvio, nascosti dal fatto stesso di darli per scontati, ovvero di ritenerli “naturali”. Che è poi il meccanismo dell’alienazione così come ce l’ha letto Marx: il mondo si presenta come reificato, prodotto non più riconosciuto come tale ma vissuto come Altro che si impone al soggetto (collettivo).
Ecco allora che lo straniamento diventa un mezzo per mostrare i legami sociali presupposti ad ogni enunciato. Spostare lo sguardo da Prince alle relazioni nei bar, consente di vedere come l’unico ad avere qualcosa da dire sia proprio lui, mentre dall’altra parte l’enunciato è un brusio, un balbettio, un’assenza.
Mauro

Ottobre caldo e l’effetto di straniamento

Siamo nel quartiere più magrebino della città, convergenti tutti dalle province del bel paese in questo coagulo sopra l’epidermide atrofizzata di Milano, una crosta di reazione immunitaria agli attacchi esterni che ha prodotto il bar all’angolo dove ci beviamo della birra fresca; il locale è gestito da cinesi di prima generazione che non hanno cambiato nulla nell’arredo trascurato e proletario ereditato dai precedenti proprietari- immagino una coppia mista, lei milanese lui dalla Puglia, che hanno aperto il bar agli inizi degli anni ottanta con la liquidazione della fabbrica - la televisione trasmette Inter Bologna, al tavolo di fianco al nostro la famiglia dei gestori consuma un pasto di zuppa di pinne di pescecane, per il bagno bisogna chiedere la chiave.
Mauro ci raggiunge, propone lo straniamento come metodo di lavoro che i nostri diversi linguaggi possono condividere.
La trovo un’ottima idea.
Al fondo del viale un gruppo di giovani nordafricani mette in scena un rito di esclusione, gesti violenti verso uno di loro che se ne va sconfitto e da solo a prendere il tram verso il centro città.
SW

martedì 12 luglio 2011

lavoro e attività

Io volevo togliermi un po’ lo sfizio…un po’ presentarvelo brutalmente il mio punto di vista, dicendo cosa mi piacerebbe venisse fuori da un eventuale lavoro, cosa mi piacerebbe che tutti insieme cercassimo in quello che stiamo per fare, a me piacerebbe anzitutto puntare più sull’idea, che stiamo parlando di andare ad analizzare  una cosa che si chiama lavoro. Questo un po’ deriva…Se  vogliamo una libertà che mi voglio prendere io rispetto a quello che più o meno mi hanno sempre insegnato. E cioè in sociologia in molte delle teorie che mi hanno presentato, in molti dei metodi che mi hanno presentato non bisognava guardare nient’altro che l’attivita’o l’azione che sono una cosa diversa dal lavoro. Ed e’ uno dei punti di partenza appunto di questo libro (Il linguaggio come lavoro e come mercato ; Ferruccio Rossi Landi)
E’ la differenza tra lavoro ed attivita’. A me piacerebbe osservare , che e’quello che penso che voi come collettivo avete già iniziato a fare. Vedere come la gente lavora, quindi adottare quella prospettiva.
Cioè qual’e’ la differenza: l’attività molto banalmente e’ fine a se stessa, il lavoro segue uno scopo e’ finalizzato a qualcos’altro, a qualcosa che esce appunto dall’immediato. Perchè  è importante questa cosa? Perché  spesso in sociologia per mantenere quel punto di vista scientifico,neutrale di cui vi ho già accennato anche l’altra volta quando eravamo a cena…spesso  ci insegnano a concentrarci su questa cosa astratta secondo me che e’ l’attività cioè  osservare le cose come se fossero fine a se stesse, perché cosi’ in qualche modo sono asettiche , così lo scopo che tu ci devi trovare in quello che le persone fanno in qualche modo e’ uno scopo che imponi tu dal tuo punto di vista di osservatore; che e’ una cosa che ci sta, che e’una cosa che è fondamentale secondo me, però il concetto è che e’ quello che dice Rossi Landi, quello che Marx ha detto prima di Rossi Landi, nel momento in cui io trovo lo scopo di quello che la gente fa sto lavorando io ,cioè il lavoro ce lo sto mettendo io in qualche modo. Quindi quando parliamo di persone, di esseri umani parliamo di lavoro e non di attività. L’esempio che fa Rossi Landi che a me piace molto,che forse e’ banale,però secondo me rende è l’esempio dell’orma sulla spiaggia.Tu vedi un’orma sulla spiaggia e dici: quell’orma li che cosa è? È un attività o un lavoro? Perchè sia l’attività che il lavoro in qualche modo trasformano la materia, è comunque un applicazione di un energia sulla materia. Poi Carlo mi puoi dire tu qualcosa su che cosa è la materia .Io lo uso in senso comune la differenza appunto che se consideriamo che non c’è nessuno che vuole capire che cosa è quell’orma, quell’orma magari rimane mera attività cioè rimane una trasformazione della materia.Nel momento in cui io interpreto, voglio cercare delle informazioni da quell’orma sta iniziando il lavoro. Quindi questo ci dice che, dal mio punto di vista, non esiste Innanzitutto uno da solo che cammina sulla spiaggia , così non esiste nemmeno uno da solo che osserva ; è necessario che ci siano tutte e due le cose affinché ci sia lavoro.E' secondo me un criterio basilare che dovrebbe essere alla base di tutti i metodi sociologici che si basano sull’osservazione .E’ una cosa che spesso viene dimenticata,c’è chi cerca di dire è così che bisogna guardare le cose, però non c’è mai una voce netta che dice ragazzi dobbiamo fare così.
A me piacerebbe proprio l’idea di scambio e lavoro cooperativo  tra noi che guardiamo e loro che lavorano già necessariamente,cioè  non fanno una mera attività…perché loro chi sono…chi andremo ad osservare secondo me ;quindi in qualche modo quando ho scritto quelle cose sul blog dicendo che dobbiamo scambiarci i lavori intendevo questo.
Un altro punto che mi ha colpito ultimamente che riguarda  quello che sto leggendo è l’idea che ci possa essere anche uno sfruttamento linguistico. Cosa voglio dire…Quando ho fatto quell’esempio dell’orma facevo dei riferimenti al segno, nel momento in cui c’è l’interprete quell’orma diventa un segno, quindi diventa parte di un codice più vasto e così via. E lo stesso ragionamento si fa benissimo considerando che una parola può essere un segno,no? quindi si può applicare una nozione di lavoro anche al linguaggio che e’ la tesi di Rossi Landi. Tutto quel discorso sul lavoriamo insieme no’che  si fa anche sul linguaggio è la tesi di Rossi Landi. Cosa succede? Succede che così come avviene per il lavoro materiale vero e proprio anche per il linguaggio ci sono dei gruppi,delle classi che si appropriano del lavoro e lo utilizzano sostanzialmente per viverci , ci sono dei gruppi che in qualche modo parassitano questa attività che è il linguaggio creando delle forme di sfruttamento linguistico come dice Rossi Landi. Cioè noi parliamo normalmente utilizziamo una lingua comune che è il parlare comune ,però poi per una serie di esigenze intervengono dei gruppi e in qualche modo utilizzano questo nostro lavorare per consentire a delle loro sottolingue di sopravvivere, di vivere. Faccio un esempio più concreto per spiegarmi meglio, situazione che sto vivendo adesso: gli agenti assicurativi .Lo scopo dell’agente assicurativo in pratica è quello di riprodurre un modello, cioè spiegare ad una persona come funziona un contratto, che tipo di benefici può avere ecc. In qualche modo l’agente assicurativo  induce questa persona a lavorare per la sua sottolingua cioè a lavorare per fare in modo che appunto il prodotto che  vuole vendergli possa portargli in qualche modo un profitto Questo è un esempio di come funziona il meccanismo dello sfruttamento linguistico. Questo per esempio è uno degli elementi che vorrei ricercare quando andiamo ad osservare: come certi gruppi di potere ,come certe classi (classi in ottica marxiana)utilizzano i nostri codici normali che sono appunto il nostro parlare comune per far funzionare i loro codici, per farci vedere la realtà alla luce di quei codici. Non ho bisogno di avere la polizza vita per esempio cioè non ho bisogno  di pensare ad una serie di rischi possibili nella mia vita  però, per fare campare l’agente assicurativo bisogna che inizi a vedere la mia vita in termine di rischi. Non è che l’agente assicurativo è l’apice di questo processo. Affinchè la compagnia possa capitalizzare è necessario che l’agente assicurativo impari che cosa è la polizza,quindi impari il lavoro che ha fatto il produttore della polizza,cioè quello che ha calcolato una serie di rischi ed ha detto che questo rischio lo paghiamo tot. e quest’altro rischio lo paghiamo tot.  cioè è tutto un lavoro che scala ; dice Pierre Bourdieu nei rapporti di forza del campo linguistico il centro è ovunque e in nessun luogo. Questa è una visione di insieme che ho adesso, che ve l’ho anche presentata in maniera mi rendo conto poco chiara e però sto iniziando a pensare di vedere quello che andrò ad osservare con questo paio di occhiali. Quindi io continuerei anche, qualsiasi cosa noi scegliamo di osservare mi piacerebbe guardarla sempre in quest’ottica che poi è la stessa ottica di cui vi parlavo l’altra volta dell’andare a vedere una stessa attività, uno stesso lavoro in due contesti molto diversi, un contesto più fluido e un contesto più altamente istituzionalizzato, cioè andare a vedere ( in cucina ok o qualsiasi altra cosa ) come si cucina in un contesto che si basa sui dei codici che sono propri del parlare comune e come si cucina in un contesto che si basa sui codici che attingono dal parlare comune,cioè attingono dal modo normale di cucinare però lo trasformano e lo mettono in forma per sostenere le istituzioni.Cioè per esempio la scuola di cucina. Il metodo che vorrei mantenere è questo. E vi ho semplicemente allargato ulteriormente la cosa che vi ho detto l’altra volta forse rendendola ancora meno chiara,però,era anche un modo per consentire a me di inserire queste nuove cose che stò leggendo, aggiungere roba no, calibrarla un po’.
Poi c’era un’altra cosa, era sulla storia del cantante lirico coreano. Un altro pezzo di Rossi  Landi che cita Wittgenstein è contro l’idea che possa esistere come una lingua astratta cioè che l’individuo da solo sia qualcosa di più che un canale per una lingua che invece è sociale,è la differenza appunto che diceva Vittorio sulla credibilità dell’interprete in base al fatto che conosca o meno la lingua: Dice Rossi Landi : un pensare privato che venga poi o concomitantemente espresso nella lingua non esiste.
 Wittgenstein invece : quando io penso nella lingua non mi si liberano dinnanzi in aggiunta all’espressione verbale anche dei significati , la lingua è essa stessa veicolo del pensiero. Il pensiero è ciò che distingue il parlare con il pensiero dal parlare senza pensare.  E secondo me calza perfettamente con quello che diceva Vittorio e il capire come funziona la lingua che da il senso a quello che canta il cantante  Che poi è la stessa cosa che vi ho linkato su Square. Insomma c’è una lezione di canto lirico….Viva Verdi…insomma c’è questa cantante lirica inglese che canta a memoria, non sa esattamente cosa sta cantando……..
 (Giorgio Borrelli, brano di conversazione)

sabato 4 giugno 2011

documentare

Mundaneum
Mons, una sessantina di chilometri a sud-ovest di Bruxelles, 76 di rue de Nimy.
"Nel 1895 due giuristi belgi decisero di mettere insieme lo scibile universale e di catalogarlo con un sistema che chiamarono Classificazione Universale Decimale ( quella tutt'ora in uso nelle biblioteche) stabilendo lo standard e il formato delle schede bibliografiche, così come delle cassettiere che le raccolgono. Erano Paul Otlet, figlio di un grande industriale e Henri-Marie La Fontaine, premio Nobel per la pace nel 1913. La loro pratica era guidata da una teoria, che culmina, nel 1934, nel Traitè de Documentation di Otlet, basato sul principio secondo cui tutto può essere documentato. L'idea era che il mondo esiste per entrare in un catalogo, che avrebbe ordinato il sapere e, per quella via, avrebbe favorito la conoscenza fra i popoli e propiziato la pace universale.
...Poco alla volta il visitatore coglie un'aria di famiglia in quelle carte d'altri tempi, e a un certo punto si fa avanti l'illuminazione: il sogno di Otlet e La Fontaine si è realizzato da un pò di anni, ed è il web."
da Documentalità, Maurizio Ferraris

qui importe qui parle

In questa prima “esplorazione” vi propongo una riflessione da condividere a partire da un contributo di Antonio Negri al simposio Arte e lavoro immateriale del 2008 che si è svolto a Londra.
La sua è un’analisi complessa costruita a partire dal titanico tentativo di interpretazione del contemporaneo espresso in testi come Impero e Moltitudine, scritti in collaborazione con Michael Hardt, e dove l’attività artistica, sta sempre dentro il modo di produzione esistente e lo riproduce, cioè lo produce e lo contesta, lo subisce o lo distrugge. L’attività artistica è un modo, una forma singolare della forza lavoro. L’opera d’arte è, dunque , sempre, come lo è il produrre nell’epoca del capitale, due cose: merce e attività….:non solo dunque quel modo di produrre arte che è ricondotto alla produzione di merci, ma quel modo di produrre arte che è null’altro che la figura, la potenza dell’essere creativi nel mondo. La forza lavoro come libero uccello nella selva della vita.
Ecco un’immagine che ha una sua vitalità, la forza lavoro come libero uccello che si staglia nel cielo di un paesaggio in stile materialista, nella luce obliqua di un interminabile tramonto, in un epifania di strutture e di sviluppi dei modi di produzione, come dismisura, eccedenza che scopre forme in un surplus di produttività.
L’attività artistica è resistenza al presente, ostinata resistenza.
Nel tempo si è chiarita per me la visione del nostro fare arte come un’inesausta indagine nel mondo alla ricerca di indizi di opposizioni, di azioni d’eccedenza volte al singolare, di tracce di quel movimento scomposto che è “ il tirarsene fuori”.
Cercare nel mondo, perché siamo lì e non possiamo andarcene altrove, perché non abbiamo idea di come fare opposizione se non attraverso questo mirabile inganno.
Il nostro ultimo lavoro, ancora in via di realizzazione, è una serie di video  con un titolo comune, “Scarto minimo”, in cui la parola scarto è brusca deviazione, differenza, ma anche ciò che viene escluso in base a una scelta.
Vorremmo dare corpo al discorso dell’esclusione nella sua versione minima, non spettacolare, comune, tentare di mettere in scena l’atto di una resistenza balbettante, lo scarto minimo di un falso deragliamento, come sempre attraverso le parole degli altri, perché qui importe qui parle?

Il paradosso artistico odierno consiste, intensivamente quanto estensivamente, nel voler produrre in altro modo il mondo ( e i corpi e i movimenti) da dentro un mondo che non ne riconosce altri e sa che il fuori da costruire non può che essere l’altro di un dentro assoluto.

In un ottica di utopia concreta, Negri conclude il suo intervento proponendo un cammino a tre stadi  attraverso i quali definire uno stile di produzione artistica, uno stile che sia attraversato da un’etica.
Non vi propongo queste prescrizioni per indicare una direzione del fare artistico, ma trovo interessante che gli stadi proposti, pensati da un intellettuale  per indicare uno stile artistico, possano essere un possibile strumento di riflessione e di lavoro concreto per GAP, dove il gruppo è già movimento infinito dei corpi e degli eventi, immagini di vita e espressione del sapere in cui immergersi.


1)   il primo stadio consiste nell’immersione nel movimento infinito dei corpi e degli eventi che ci circondano, delle immagini di vita e dell’espressione del sapere. Meglio, mettersi all’opera di decostruzione del reale che la pura e semplice immersione esige, qualora essa muova dal desiderio critico. Vita nuda, povertà, desiderio critico- questa è sempre la sezione dell’immergersi. Ci si trova a comporre il grande sciame delle singolarità. Esse vogliono confluire nel comune, mantenendo la loro libertà.
2)   il secondo stadio è riflessivo. Si presenta come un momento di riconoscimento del comune. Qui si agisce come sciame ricomponendo non più semplicemente la moltitudine ma la figura dello sciame, il suo disegnarsi come direzione volatile, telos materialista che sorge dal basso, da ciascuna e da tutte le singolarità. L’immersione povera nella molteplicità trova allora qui la direzione dell’amore – attraverso amore si costruiscono la solidarietà dei corpi e le decisioni dello spirito. Una vera e proprio metamorfosi si opera così sulla molteplicità che costruisce lo sciame. Il lavoro immateriale ha finalmente trovato una legittimità etica che è strutturalmente legata al suo reinventarsi come forma di vita. L’arte si definisce come forma di vita, qualificata dalla povertà, alla sua base, e dalla volontà rivoluzionaria all’apice del divenire-sciame.
3)   Eccoci dunque in questo movimento, nel suo terzo stadio.( Un tempo Paolo Virno, anticipando buona parte delle intuizioni e dei concetti che poi furono espressi a proposito del lavoro immateriale, definì le performaces di questo lavoro come capolavoro. La potenza ermeneutica di Virno non si può sottovalutare. Essa va tuttavia ulteriormente sviluppata), una volta che l’omologia del formarsi dello sciame moltitudinario e dell’operatività del lavoro immateriale ( e cognitivo e affettivo) sia stata riconosciuta. Quel comune che in forme artistiche si è sviluppato, va ora incarnato da una decisione collettiva, in un governo comune. Meglio, organizzato da una governance delle/sulle/nelle forme di vita che sono state costruite. Il bello sta in questo costruirsi del limite etico-politico del comune, quando l’esperienza del comune - contro ogni tentativo di comunità- esprime governo e forme di vita libere e ricche.

martedì 24 maggio 2011

L'aspetto importantissimo dell'interpretazione

Se tu conosci le parole riesci a capire come sta interpretando il cantante, il suo apporto all’interpretazione, se invece non sai le parole non riesci a cogliere l’interpretazione di questo artista”.


Minuto 4.29 - 6.10 http://www.youtube.com/watch?v=KxJ0chrN7O8&feature=related

domenica 15 maggio 2011

quidditas

Quando la filosofia diventa scolastica, ed è un linguaggio completamente tecnico, che parlano pochissime persone, non soltanto perché è latino ma un certo latino specifico, si occupa di microproblemi che riguardano solo l’ambiente, la filosofia stessa in quanto sapere, è chiaro diventa un sapere di cui si finanziano le cattedre ma che poi non interessa a nessuno,infatti a un certo punto la società dice, ma a noi che ce ne frega di queste accademie che non dicono niente, la filosofia è un’altra cosa,andiamo a leggere davvero cosa dicono i classici e portiamolo nella società, riprendiamo un discorso politico, riprendiamo un discorso sociale, artistico, sul soggetto. E la filosofia scolastica è morta, solo la chiesa parla ancora quel linguaggio lì in alcune sue parti,ma quella filosofia è morta. Ci son dei tesori lì dentro, ma completamente incomprensibili, illeggibili, enigmatici.
E’ veramente una serie di pippe, anche molto belle per chi possiede quel linguaggio, ma è una cosa veramente lontana perfino dalla società del tempo. Tant’è vero che poi si vanno a recuperare quei pensatori che non sono filosofi ma che magari ti parlano delle cose del tempo e che hanno un rilievo filosofico, Dante sulla monarchia, Marsilio Ficino, e nessuno ti parla dei maestri parigini che disputano sulla quidditas, su che cos’è la quidditas…
brano di conversazione, Matteo

Tutte le pernacchie di quando stai imparando a suonare la tromba.

 G Tutti i progetti che fai e dai quali poi  devi togliere, togliere togliere, un sovrappiù, il prodotto fatto di saperi, immagini provenienti dall’archivio visivo che hai in testa.
M un archivio mentale, il mio magari non è visivo ma di idee…
V e poi a un certo punto arriva la forbice
G c’è bisogno di tagliare
v e cosa succede?
G nella fase della transizione da un sapere a un altro, l’unico modo è forse, non so, magari è un modo banale, è il lavoro che stiamo facendo di tenere documentato quello che esce, perché solo da quello probabilmente emergerà l’impossibilità di ridurre a linguaggio questo passaggio; e quindi il nostro arrampicarci sui vetri
M chiaro chiaro, la passione in senso proprio quasi cristologico, insomma la difficoltà della cosa,
G perché non c’è un vuoto nella transizione, non può esserci, non è che tu
M è quello il bello, chiedersi se c’è o non c’è. Perchè se c’è..
G siccome c’è comunque una soggettività anche rispetto ai nostri rispettivi saperi no?, non è che siamo portatori di un linguaggio, non siamo dei medium; per questo mi interessava il cantante d’opera
V Ho chiesto ho chiesto
G lo sanno cosa dicono…
V no
G non lo sanno!! lo sapevo.
V la maggior parte no
M ho capito
G hai capito tutto?
M spiegami ma ho capito
G a parte la questione cibo, mi veniva in mente tutta una serie di luoghi di spedizione, per fare la spedizione scientifica, che avessero a che fare proprio con il linguaggio,quindi poteva essere dal cantante d’opera coreano
M se sa cosa canta
G se sa il significato delle parole, se no diventi uno strumento,e sei come abitato, come tutti noi che siamo abitati dall’ altro, dal mondo, dal linguaggio in  cui siamo venuti, venuti al linguaggio che ci abita e che noi restituiamo come medium in trance.
M il cantante d’opera è abitato dal linguaggio musicale
G però ne usa anche un altro
M annulla quello verbale
V c’è però un altro aspetto che nella musica classica è importantissimo, che è l’interpretazione, se tu conosci le parole riesci a capire come sta interpretando il cantante, il suo apporto all’interpretazione, se invece non sai le parole non riesci a cogliere l’interpretazione di questo artista. La musica classica in generale ha, non è un problema, ha questa particolarità. Se tu conosci il testo e senti le diverse versioni riesci a capire l’interpretazione dell’artista che ti sta davanti, se tu non l’hai mai sentita, la senti per la prima volta, non hai confronti, non hai un campo per poter
G c’è tutto questo mondo, che potrebbe essere un buon materiale, meno difficile per noi; per gli artisti visivi lavorare sulla questione cibo è molto faticoso, uno perché negli anni novanta ci sono stati molti artisti che hanno lavorato sulla questione cibo, quindi nella storia dell’arte, dalla natura morta in poi c’è un materiale con cui confrontarsi, ma a me poi viene un dubbio, io vorrei parlare ad uno spettatore che si senta coinvolto, l’aspetto visivo è importante, quindi se proponi qualcosa dove si possa identificare o sentirsi catturato... io trovo difficile mostrargli uno studente adolescente dell’alberghiera ed emozionarlo, non sono un  mago, per me è più facile su altri argomenti, magari un mondo che conosce poco, una separatezza, dove c’è il contrasto si gioca un po’ di drammaticità
M non c’è dramma, non c’è pathos
Brani di conversazione in pizzeria, Giusi, Matteo e Vittorio

giovedì 5 maggio 2011

il suono

Il suono ha origine dalla vibrazione dei corpi elastici. Questa vibrazione, trasmessa dall'aria
circostante sotto forma di onde acustiche, viene captata dall'orecchio umano e trasmessa al cervello il
quale ne esegue la decodifica.
Il rumore è un segnale di disturbo rispetto all'informazione trasmessa in un sistema.
Come i suoni, il rumore è costituito da onde di pressione sonora.Il rumore è un fenomeno oscillatorio che consente la trasmissione di energia attraverso un mezzo. Nel vuoto non è possibile la trasmissione di rumori o di vibrazioni. Il rumore viene definito come una somma di oscillazioni irregolari, intermittenti o statisticamente casuali. Dal punto di vista fisiopatologico, facendo riferimento all'impatto sul soggetto che lo subisce, il rumore può essere meglio definito come un suono non desiderato e disturbante.
Una delle più comuni definizioni di musica è di quella di arte del suono organizzato, o - più specificatamente - di arte del produrre significati e sensazioni, più o meno complessi - e comunque di natura volontaria - organizzando suoni e silenzio. Simili definizioni - comunemente accettate - sono state ampiamente adottate sin dal diciannovesimo secolo, quando si iniziò a studiare scientificamente la relazione tra il suono e la percezione.
La musica è un mezzo di comunicazione artistica, è quindi un linguaggio, un linguaggio basato su dei canoni stabiliti e organizzati espresso con mezzi (strumenti di lavoro) e captato dal sistema uditivo per essere decodificato dal cervello (percezione). E' quindi un linguaggio a tutti gli effetti.
L'insieme di questi canoni organizzati (metodologia), dopo essere stato decodificato e percepito viene riconosciuto secondo i canoni stabiliti a cui il cervello è tradizionalmente abituato ed educato. Ma cosa succede se usciamo da questo linguaggio? cosa succede se usciamo dal suono organizzato? cosa percepisce il nostro cervello?
Fino al diciannovesimo secolo, e tuttora nella maggior parte dei conservatori, questo uscire dal canone organizzato veniva, e viene, definito cacofonia..... cioè inascoltabile, fastidioso. Se si eseguono due note contemporaneamente che hanno la distanza di un semitono è definito errore, come pure errore è eseguire una nota in una tonalità che non prevede quella nota.
Ma poi viene Arnold Schomberg e nella sua visione di comunicazione musicale c'è l'esecuzione di tutte le 12 note senza limite dato dalla tonalità stabilita, per questo all'ascoltatore sembra di camminare senza un punto di appoggio, senza riferimento conosciuto. John Cage compone per "prepared piano" un piano preparato che esegue suoni che non corrispondono alle note stabilite dalla metodologia ma sono note che stanno nel mezzo del semitono e modifica anche la loro timbrica in modo che non si riconosca nemmeno che il mezzo usato è un pianoforte, compone anche "4'33" per qualsiasi strumento" l'opera consiste nel non suonare lo strumento e restare nel completo silenzio per 4 minuti e 33 secondi.
Edgar Varése e Stockhausen inseriscono nelle loro opere dei "rumori" onde irregolari non riconosciute come suono, fino ad arrivare, per Stockhausen, a comporre una suite per "elicotteri ed archi"
E' chiaro che le persone che ascoltano queste opere non riconoscono queste composizioni come "musica ascoltabile" perchè la loro percezione musicale si basa su canoni tradizionali, ma, chi invece studia questo tipo di musica e quindi allena il proprio cervello ad una percezione di questo tipo di armonia musicale riesce a riconoscerla.
Si è usciti da un linguaggio? oppure si è creato semplicemente un ulteriore linguaggio? il tentativo di uscire dal linguaggio crea inesorabilmente un ulteriore linguaggio? daltra parte basterebbe che il mio linguaggio lo capisse anche solo un essere vivente nell'universo per poterlo chiamare linguaggio.....

mercoledì 4 maggio 2011

Forza lavoro

http://www.youtube.com/watch?v=COiQJlBH9_E

Le riflessioni di Giorgio mi hanno fatto pensare ad uno splendido corto di Yuri Ancarani, dove linguaggio è forza lavoro, strumento che sposta le montagne; un'aderenza totale, tautologica.

sabato 30 aprile 2011

Latour dice che le categorie dei “sociologi” non possono che essere una “stenografia” se paragonate alla “scrittura ordinaria” degli attori sociali, delle persone che abbiamo scelto di osservare. Ammetto che il mio linguaggio, cioè il mio modo di “lavorare” su quello che osservo, sia afflitto da questa tendenza all'ipersemplificazione (per Austin la malattia professionale dei filosofi). Ecco la mia stenografia: come vi ho accennato, per me le parole sono strumenti, sono prolungamenti delle mani, sono passaggi a livello per trattenere ospiti indesiderati, sono interruttori per i sensi; non sono diverse da scalpelli, vanghe, chitarre, torni meccanici, pennelli, tele, piatti, forchette. Le parole, o meglio le frasi (dal momento che ogni parola porta in sé le proprietà di una frase), sono strumenti ed il linguaggio è forza lavoro, l'energia che produciamo per far sì che la parole “funzionino”, che producano qualcosa. La diversità dei nostri linguaggi è la diversità dei nostri lavori, ma non del nostro “comune lavorare”, del nostro “comune parlare”: un costante impegno di traduzione (lavoro anch'esso) da un linguaggio all'altro potrebbe costituire l'energia che profondiamo insieme, il nostro impegno collettivo, il nostro impegno “come” collettivo, il nostro “essere” (alla fine) collettivo. Altri linguaggi – i lavori degli “altri” – potrebbero costituire invece la materia da lavorare, anche se solo inizialmente: trasformare i linguaggi che abbiamo osservato e modellato in quanto materia in parte attiva del nostro lavorare insieme; trasformare gli oggetti in soggetti, facendoci modellare a nostra volta – un modo di lavorare collettivo già portato avanti meravigliosamente in Suzie Wong e che spero possa continuare anche in GAP.

mercoledì 27 aprile 2011

Posso dire quello che non so?

Sfuggire al linguaggio, non c’è che dire, è paradossale - che qualcun’ altro lo dica con me per favore- eppure ci ho provato, l’ho fatto con grande serietà, e ancora lo faccio con square.
Mi pare di essere sempre partita da questo, con una sorta di imbarazzante ingenuità che mi spinge tutte le volte ad andare dove non conosco le parole, fighe e paguri a profusione, per scoprire poi che sono parole che mi appartengono ma che non ho il coraggio di usare per me.
Emerge ciò che sono quando non so di sapere?
Posso dire quello che non so allora? E’ l’unica cosa che mi sento di poter fare senza tradirmi, dirmi attraverso l’altro che forse sa o che sperimenta con me questa resa.

La traiettoria della Blues Polyommatus

http://archiviostorico.corriere.it/2011/gennaio/28/prima_farfalla_era_asiatica_teoria_co_8_110128046.shtml

martedì 26 aprile 2011

Fighe e paguri (pochissimi i paguri)


Cesenatico, a trovare Francesca, parlavamo di più o meno violenza nelle parole, legate al posto, in quel caso la Romagna. Così mi ha colpito una frase, qualche ora dopo quando intercettavo la conversazione di una coppia di ragazzini, accocolati su una panchina, con lei, preoccupata, che chiedeva a lui: "ma è figa da scopare?".
Avrei potuto fare una foto tipo safari, per documentare la zona, per suffragare la mia ipotesi, una strada piena di locali notturni e negozi in franchising, ma nella contingenza non ce l'ho fatta.
Ho cercato di rimediare il giorno dopo con questa.





Il gioco è continuato il giorno ancora successivo, quando ci siamo mossi in un posto consigliato da un bravo food blogger. Veramente notevole, un'acqua bellissima e tutto perfetto, sopratutto ora con la stagione ancora all'inizio. In quel ristorante sullo sfondo le conversazioni origliate riguardavano la psicostasia, qualcosa di greco che non sono riuscito ad afferrare, gli effetti delle lenti a contatto sulla fisiologia dell'occhio, e una ragazzina coetanea di quella di Cesenatico (14 anni circa, ma ne dimostrava 8) ha portato al tavolo degli animaletti che sapeva chiamarsi paguro bernardo ed è stata subito informata dai nonni del loro strano modo di procurasi case durante la crescita.

Mi rendo conto che quanto scritto sottende un'idea banale, non lontana dal mens sana in corpore sano. Comunque visto che la qualità e diversità degli ambienti che popoliamo è più o meno in costante declino, fa specie pensare di come fra i problemi derivanti potrebbe annoverarsi anche una perdita di varietà di linguaggio, oltre che, naturalmente, di paguri.


lunedì 25 aprile 2011

effetti di linguaggio

Non c’è mai niente e nessuno che segua la linea retta, né l’uomo né l’ameba, né la mosca, né il ramo, né niente di niente. Secondo le ultime notizie non la segue neppure il fascio di luce, del tutto solidale con la curva universale. (Jacques Lacan)

È dunque il movimento un curva? un ricciolo? Un ritorno? Ecco forse qua, nel ritorno, nel ritorno come effetto dell’andare, trovo il punto di ancoraggio da cui dire qualcosa sul linguaggio, o se volete su quell’andare che il lancio del giavellotto di Beckett lascia in sospeso fintantoché il rumore ritorna come indice di un sapere sul mondo, e forse sul lanciatore. Se assumiamo come unità di misura del linguaggio il significante, la distanza percorsa nel dire non è una pura successione, ma piuttosto trova in un effetto di ritorno la possibilità della sua significazione. Questo è correlativo al dire che un campo del sapere - una disciplina - ha come fondamento della sua coerenza interna un punto di eccezione. Questo punto di eccezione, fondamento del campo, è sia esterno che interno al campo stesso, è ciò su cui si regge il campo ma anche ciò che ne evidenzia il limite. I matematici lo chiamano assioma, noi psicoanalisti punto extimo, intimo ma straniero al soggetto. Non sono là dove il mio pensiero mi oggettivizza, mentre emerge ciò che sono quando non penso di pensare. Sono dove non penso, penso dove non sono. Questa scissione costitutiva instauratasi nell’umano a partire dall’atto freudiano si impone e annulla ogni tentativo di separare il razionale dall’emozionale, la forma dalla materia. Ma cosa impedisce ad un discorso di essere puro sembiante? Che abbia presa sul reale, che qui possiamo indicare come ciò che se ne infischia del nostro dire. Ma a quale reale ci rivolgiamo quando mettiamo in piedi un’esplorazione come quella di square? Qual è il soggetto dell’enunciazione? Da dove parla e quali effetti produce sui punti che delimitano il perimetro di square? Nell’enunciazione di ciascuno possiamo ritrovare la presenza di un significato che emerge proprio dall’atto di parola e in quanto tale si riversa, ricade come un boomerang, sul soggetto da cui proveniva. Se sufficientemente disposti alla meraviglia dell’incontro con il rimosso, possiamo accogliere come apertura l’effetto di quella sfasatura tra ciò che si voleva dire e ciò che è stato detto.

Come un relitto felice

Da Flavia,
che come sempre afasica, riluttante a scrivere, deve fare uno sforzo, un balzo, scavalcare le difficolta' di un inizio:

Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando per un attimo sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece di essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile.
Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quello che sto per dire) una voce che parlasse cosi' :" Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole finche' ce ne sono, bisogna dirle sinche' mi trovino, sinche' mi dicano -strana pena, strana colpa, bisogna continuare, è forse cosa gia' fatta, mi hanno forse gia' detto, mi hanno forse portato fino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s'apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta".
C'e' in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile desiderio di ritrovarsi, d'acchito, dall'altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall'esterno cio' che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse.
Il desiderio dice:" non vorrei dover io stesso entrare in quest'ordine fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in cio' che ha di tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt'intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinitivamente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verita', ad una ad una, si alzassero; non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice".


da Michel Foucault           

giovedì 21 aprile 2011

Officina, attrezzo, manufatto

Riprendo l'immagine usata per dire del nostro gruppo, officina, attrezzo, manufatto.
Una cassetta degli attrezzi potrebbe essere un glossario di parole significanti da declinare singolarmente, definizioni veloci da mettere in comune, declinazioni soggettive del nostro sapere.
Ne suggerisco alcune:
metodologia, linguaggio, gruppo, necessità, lavoro, attrezzi, arte, sapere...

domenica 17 aprile 2011

L’aria, l’aria, cerchiamo di vedere che cosa si può cavare da questo vecchio tema.

Come sempre il lavoro per me parte da una domanda alla quale non so rispondere, e che rivolgo ad altri cercando di rendere visibile lo stupore che ogni vera domanda presuppone.
La domanda che ha messo in moto l’idea di costituire un gruppo come il nostro è :
c’è possibilità di uscire dal proprio linguaggio, dal linguaggio ?
Sapere di no eppure porsi la questione come se fosse una possibilità, magari attraverso l’incontro di linguaggi diversi in un gioioso impeto di fuga dall’autoreferenzialità specialistica, potrebbe essere una forma di delirio di onnipotenza fondativa.
Intanto vi chiedo di provare a rispondere alla domanda, la parola pregnante su cui cominciare a riflettere come suggeriva Matteo può essere quindi linguaggio.
La fuga per quanto mirabolante non può escludere una mappa dei confini, dei limiti dai quali partire per inventare un piano di evasione.

Ma in realtà questo schermo contro il quale il mio sguardo urta, insistendo a vedervi dell’aria, non sarà piuttosto il recinto, d’una densità di grafite? Per chiarire questa faccenda avrei bisogno di un bastone, e dei mezzi per servirmene, dato che quello è ben poco in mancanza di questi, e viceversa.
Avrei anche bisogno, lo accenno di sfuggita, di participi, futuri e condizionali. Allora lo scaglierei come un giavellotto, dritto davanti a me, e saprei se ciò che mi accerchia tanto da vicino, e mi impedisce di vedere, è sempre un vuoto, oppure è un pieno, a seconda del rumore che udrei.
(S.Beckett, L'innominabile)

giovedì 7 aprile 2011

Da Nabokov

Durante le sue prime vacanze estive, Van lavorò alle dipendenze di Temkin nella famosa clinica di Chose, dando inizio alla stesura di un ambizioso saggio, che non completò mai, intitolato Terra: realtà eremitica o sogno collettivo?
Per svolgere le sue indagini, dovette interrogare numerosi nevrotici, tra i quali artisti di varietà,letterati, e almeno tre studiosi di cosmogonia, intellettualmente lucidi ma spiritualmente "smarriti", che comunicavano tra loro per telepatia ( non si erano mai visti e non conoscevano l'uno l'esistenza dell'altro ) e avevano scoperto, non si seppe mai come nè dove-grazie, forse, all'intervento di misteriose "ondule" proibite-, un mondo verde, uguale al nostro nel rapporto tra spirito e materia, che seguiva nello spazio un moto rotatorio e nel tempo un moto a spirale, e di cui i tre studiosi erano in grado di fornire gli stessi particolari, esattamente come farebbero tre persone che guardino da tre diverse finestre lo stesso corteo di carnevale.