sabato 30 aprile 2011

Latour dice che le categorie dei “sociologi” non possono che essere una “stenografia” se paragonate alla “scrittura ordinaria” degli attori sociali, delle persone che abbiamo scelto di osservare. Ammetto che il mio linguaggio, cioè il mio modo di “lavorare” su quello che osservo, sia afflitto da questa tendenza all'ipersemplificazione (per Austin la malattia professionale dei filosofi). Ecco la mia stenografia: come vi ho accennato, per me le parole sono strumenti, sono prolungamenti delle mani, sono passaggi a livello per trattenere ospiti indesiderati, sono interruttori per i sensi; non sono diverse da scalpelli, vanghe, chitarre, torni meccanici, pennelli, tele, piatti, forchette. Le parole, o meglio le frasi (dal momento che ogni parola porta in sé le proprietà di una frase), sono strumenti ed il linguaggio è forza lavoro, l'energia che produciamo per far sì che la parole “funzionino”, che producano qualcosa. La diversità dei nostri linguaggi è la diversità dei nostri lavori, ma non del nostro “comune lavorare”, del nostro “comune parlare”: un costante impegno di traduzione (lavoro anch'esso) da un linguaggio all'altro potrebbe costituire l'energia che profondiamo insieme, il nostro impegno collettivo, il nostro impegno “come” collettivo, il nostro “essere” (alla fine) collettivo. Altri linguaggi – i lavori degli “altri” – potrebbero costituire invece la materia da lavorare, anche se solo inizialmente: trasformare i linguaggi che abbiamo osservato e modellato in quanto materia in parte attiva del nostro lavorare insieme; trasformare gli oggetti in soggetti, facendoci modellare a nostra volta – un modo di lavorare collettivo già portato avanti meravigliosamente in Suzie Wong e che spero possa continuare anche in GAP.

mercoledì 27 aprile 2011

Posso dire quello che non so?

Sfuggire al linguaggio, non c’è che dire, è paradossale - che qualcun’ altro lo dica con me per favore- eppure ci ho provato, l’ho fatto con grande serietà, e ancora lo faccio con square.
Mi pare di essere sempre partita da questo, con una sorta di imbarazzante ingenuità che mi spinge tutte le volte ad andare dove non conosco le parole, fighe e paguri a profusione, per scoprire poi che sono parole che mi appartengono ma che non ho il coraggio di usare per me.
Emerge ciò che sono quando non so di sapere?
Posso dire quello che non so allora? E’ l’unica cosa che mi sento di poter fare senza tradirmi, dirmi attraverso l’altro che forse sa o che sperimenta con me questa resa.

La traiettoria della Blues Polyommatus

http://archiviostorico.corriere.it/2011/gennaio/28/prima_farfalla_era_asiatica_teoria_co_8_110128046.shtml

martedì 26 aprile 2011

Fighe e paguri (pochissimi i paguri)


Cesenatico, a trovare Francesca, parlavamo di più o meno violenza nelle parole, legate al posto, in quel caso la Romagna. Così mi ha colpito una frase, qualche ora dopo quando intercettavo la conversazione di una coppia di ragazzini, accocolati su una panchina, con lei, preoccupata, che chiedeva a lui: "ma è figa da scopare?".
Avrei potuto fare una foto tipo safari, per documentare la zona, per suffragare la mia ipotesi, una strada piena di locali notturni e negozi in franchising, ma nella contingenza non ce l'ho fatta.
Ho cercato di rimediare il giorno dopo con questa.





Il gioco è continuato il giorno ancora successivo, quando ci siamo mossi in un posto consigliato da un bravo food blogger. Veramente notevole, un'acqua bellissima e tutto perfetto, sopratutto ora con la stagione ancora all'inizio. In quel ristorante sullo sfondo le conversazioni origliate riguardavano la psicostasia, qualcosa di greco che non sono riuscito ad afferrare, gli effetti delle lenti a contatto sulla fisiologia dell'occhio, e una ragazzina coetanea di quella di Cesenatico (14 anni circa, ma ne dimostrava 8) ha portato al tavolo degli animaletti che sapeva chiamarsi paguro bernardo ed è stata subito informata dai nonni del loro strano modo di procurasi case durante la crescita.

Mi rendo conto che quanto scritto sottende un'idea banale, non lontana dal mens sana in corpore sano. Comunque visto che la qualità e diversità degli ambienti che popoliamo è più o meno in costante declino, fa specie pensare di come fra i problemi derivanti potrebbe annoverarsi anche una perdita di varietà di linguaggio, oltre che, naturalmente, di paguri.


lunedì 25 aprile 2011

effetti di linguaggio

Non c’è mai niente e nessuno che segua la linea retta, né l’uomo né l’ameba, né la mosca, né il ramo, né niente di niente. Secondo le ultime notizie non la segue neppure il fascio di luce, del tutto solidale con la curva universale. (Jacques Lacan)

È dunque il movimento un curva? un ricciolo? Un ritorno? Ecco forse qua, nel ritorno, nel ritorno come effetto dell’andare, trovo il punto di ancoraggio da cui dire qualcosa sul linguaggio, o se volete su quell’andare che il lancio del giavellotto di Beckett lascia in sospeso fintantoché il rumore ritorna come indice di un sapere sul mondo, e forse sul lanciatore. Se assumiamo come unità di misura del linguaggio il significante, la distanza percorsa nel dire non è una pura successione, ma piuttosto trova in un effetto di ritorno la possibilità della sua significazione. Questo è correlativo al dire che un campo del sapere - una disciplina - ha come fondamento della sua coerenza interna un punto di eccezione. Questo punto di eccezione, fondamento del campo, è sia esterno che interno al campo stesso, è ciò su cui si regge il campo ma anche ciò che ne evidenzia il limite. I matematici lo chiamano assioma, noi psicoanalisti punto extimo, intimo ma straniero al soggetto. Non sono là dove il mio pensiero mi oggettivizza, mentre emerge ciò che sono quando non penso di pensare. Sono dove non penso, penso dove non sono. Questa scissione costitutiva instauratasi nell’umano a partire dall’atto freudiano si impone e annulla ogni tentativo di separare il razionale dall’emozionale, la forma dalla materia. Ma cosa impedisce ad un discorso di essere puro sembiante? Che abbia presa sul reale, che qui possiamo indicare come ciò che se ne infischia del nostro dire. Ma a quale reale ci rivolgiamo quando mettiamo in piedi un’esplorazione come quella di square? Qual è il soggetto dell’enunciazione? Da dove parla e quali effetti produce sui punti che delimitano il perimetro di square? Nell’enunciazione di ciascuno possiamo ritrovare la presenza di un significato che emerge proprio dall’atto di parola e in quanto tale si riversa, ricade come un boomerang, sul soggetto da cui proveniva. Se sufficientemente disposti alla meraviglia dell’incontro con il rimosso, possiamo accogliere come apertura l’effetto di quella sfasatura tra ciò che si voleva dire e ciò che è stato detto.

Come un relitto felice

Da Flavia,
che come sempre afasica, riluttante a scrivere, deve fare uno sforzo, un balzo, scavalcare le difficolta' di un inizio:

Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando per un attimo sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece di essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile.
Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quello che sto per dire) una voce che parlasse cosi' :" Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole finche' ce ne sono, bisogna dirle sinche' mi trovino, sinche' mi dicano -strana pena, strana colpa, bisogna continuare, è forse cosa gia' fatta, mi hanno forse gia' detto, mi hanno forse portato fino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s'apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta".
C'e' in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile desiderio di ritrovarsi, d'acchito, dall'altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall'esterno cio' che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse.
Il desiderio dice:" non vorrei dover io stesso entrare in quest'ordine fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in cio' che ha di tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt'intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinitivamente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verita', ad una ad una, si alzassero; non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice".


da Michel Foucault           

giovedì 21 aprile 2011

Officina, attrezzo, manufatto

Riprendo l'immagine usata per dire del nostro gruppo, officina, attrezzo, manufatto.
Una cassetta degli attrezzi potrebbe essere un glossario di parole significanti da declinare singolarmente, definizioni veloci da mettere in comune, declinazioni soggettive del nostro sapere.
Ne suggerisco alcune:
metodologia, linguaggio, gruppo, necessità, lavoro, attrezzi, arte, sapere...

domenica 17 aprile 2011

L’aria, l’aria, cerchiamo di vedere che cosa si può cavare da questo vecchio tema.

Come sempre il lavoro per me parte da una domanda alla quale non so rispondere, e che rivolgo ad altri cercando di rendere visibile lo stupore che ogni vera domanda presuppone.
La domanda che ha messo in moto l’idea di costituire un gruppo come il nostro è :
c’è possibilità di uscire dal proprio linguaggio, dal linguaggio ?
Sapere di no eppure porsi la questione come se fosse una possibilità, magari attraverso l’incontro di linguaggi diversi in un gioioso impeto di fuga dall’autoreferenzialità specialistica, potrebbe essere una forma di delirio di onnipotenza fondativa.
Intanto vi chiedo di provare a rispondere alla domanda, la parola pregnante su cui cominciare a riflettere come suggeriva Matteo può essere quindi linguaggio.
La fuga per quanto mirabolante non può escludere una mappa dei confini, dei limiti dai quali partire per inventare un piano di evasione.

Ma in realtà questo schermo contro il quale il mio sguardo urta, insistendo a vedervi dell’aria, non sarà piuttosto il recinto, d’una densità di grafite? Per chiarire questa faccenda avrei bisogno di un bastone, e dei mezzi per servirmene, dato che quello è ben poco in mancanza di questi, e viceversa.
Avrei anche bisogno, lo accenno di sfuggita, di participi, futuri e condizionali. Allora lo scaglierei come un giavellotto, dritto davanti a me, e saprei se ciò che mi accerchia tanto da vicino, e mi impedisce di vedere, è sempre un vuoto, oppure è un pieno, a seconda del rumore che udrei.
(S.Beckett, L'innominabile)

giovedì 7 aprile 2011

Da Nabokov

Durante le sue prime vacanze estive, Van lavorò alle dipendenze di Temkin nella famosa clinica di Chose, dando inizio alla stesura di un ambizioso saggio, che non completò mai, intitolato Terra: realtà eremitica o sogno collettivo?
Per svolgere le sue indagini, dovette interrogare numerosi nevrotici, tra i quali artisti di varietà, letterati, e almeno tre studiosi di cosmogonia, intellettualmente lucidi ma spiritualmente "smarriti", che comunicavano tra loro per telepatia ( non si erano mai visti e non conoscevano l'uno l'esistenza dell'altro ) e avevano scoperto, non si seppe mai come né dove-grazie, forse, all'intervento di misteriose "ondule" proibite-, un mondo verde, uguale al nostro nel rapporto tra spirito e materia, che seguiva nello spazio un moto rotatorio e nel tempo un moto a spirale, e di cui i tre studiosi erano in grado di fornire gli stessi particolari, esattamente come farebbero tre persone che guardino da tre diverse finestre lo stesso corteo di carnevale.

GAP

Gap è breccia, apertura, divergenza e lacuna e ancora, passo, valico.
Per noi è un gruppo di lavoro aperto e molteplice nella composizione e nelle ambizioni.
L’idea del gruppo si è sviluppata a partire da una pratica di collaborazioni e di produzioni collettive che caratterizza il nostro lavoro da tempo, unita alla voglia di approfondire questo talento del molteplice e di giocarlo fino in fondo.
Abbiamo esteso ad un primo nucleo di persone l’invito a partecipare alla costruzione del gruppo, trovando corrispondenza e anche un irresponsabile entusiasmo, in questa che potremmo chiamare una forma d’azzardo nelle possibilità di concatenamenti di saperi.

 Sulla carta si devono sempre collocare le impasse, e da lì aprirle sulle possibili linee di fuga. Lo stesso dovrebbe avvenire per una carta di gruppo: mostrare in quale punto del rizoma si formino fenomeni di massificazione, di burocratizzazione, di leadership, di fascistizzazione, ma anche quali linee continuino, magari sotterraneamente, a fare oscuramente rizoma.                 ( G.Deleuze, F.Guattari)

In un certo modo, Gap vuole essere un gruppo costituente dove la teoria e la pratica, i contenuti e il come della loro esposizione, la forma molteplice che li produce, sono il lavoro stesso.
Officina, attrezzo e manufatto.

Non esiste una lingua madre, ma solo il sopravvento di una lingua dominante in una molteplicità politica. La lingua si stabilisce intorno a una parrocchia, un vescovato, una capitale.

I linguaggi specifici dei diversi saperi presenti nel gruppo saranno decentrati,
deterritorializzati, messi in tensione tra loro.
Il processo vuole smarcare i singoli saperi dalle specificità dei linguaggi, per indagare le possibilità di un pensiero trasversale, approdare ad un’analisi del pensiero divincolato e comunicato dove poter abbandonare le dinamiche date, e con un’ultima acrobazia tentare un incursione nel mondo.
  

Collideranno per Gap le parole di
Giorgio Borrelli, Matteo Canevari, Martina Dandolo, Carlo Maiolini, Mauro Milanaccio, Suzie Wong Project, U-inductio.