Latour dice che le categorie dei “sociologi” non possono che essere una “stenografia” se paragonate alla “scrittura ordinaria” degli attori sociali, delle persone che abbiamo scelto di osservare. Ammetto che il mio linguaggio, cioè il mio modo di “lavorare” su quello che osservo, sia afflitto da questa tendenza all'ipersemplificazione (per Austin la malattia professionale dei filosofi). Ecco la mia stenografia: come vi ho accennato, per me le parole sono strumenti, sono prolungamenti delle mani, sono passaggi a livello per trattenere ospiti indesiderati, sono interruttori per i sensi; non sono diverse da scalpelli, vanghe, chitarre, torni meccanici, pennelli, tele, piatti, forchette. Le parole, o meglio le frasi (dal momento che ogni parola porta in sé le proprietà di una frase), sono strumenti ed il linguaggio è forza lavoro, l'energia che produciamo per far sì che la parole “funzionino”, che producano qualcosa. La diversità dei nostri linguaggi è la diversità dei nostri lavori, ma non del nostro “comune lavorare”, del nostro “comune parlare”: un costante impegno di traduzione (lavoro anch'esso) da un linguaggio all'altro potrebbe costituire l'energia che profondiamo insieme, il nostro impegno collettivo, il nostro impegno “come” collettivo, il nostro “essere” (alla fine) collettivo. Altri linguaggi – i lavori degli “altri” – potrebbero costituire invece la materia da lavorare, anche se solo inizialmente: trasformare i linguaggi che abbiamo osservato e modellato in quanto materia in parte attiva del nostro lavorare insieme; trasformare gli oggetti in soggetti, facendoci modellare a nostra volta – un modo di lavorare collettivo già portato avanti meravigliosamente in Suzie Wong e che spero possa continuare anche in GAP.
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